Notti notturne

lunedì 27 agosto 2012

Consorzi umani a perdere

"State attenti: la nave è in mano al cuoco di bordo e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani".                                              (Soren Kierkegaard)
On      Avenue
"Station"


        di Matteo Tassinari
Per brevità lo chiamavamo il viale della stazione perché era una grossa arteria con numerosi bar e negozi ai lati che fendeva netta Faenza e David Bowie non c'era mai. Il viale era lo spazio che più si addiceva ai volti trasandati ospitati, gratuitamente, giorno e notte, mattino e sera, noi e loro.
Fontane da dove attingere l’acqua per farsi, macchine, panchine in ferro battuto scomodissime dove vanificare ore e ore di obnubilata esaltazione o deperimento artificiale dei sensi, bar frequentati da delinquenti divorati dal gioco d’azzardo con la pistola in macchina e colpo in canna, biscazzieri e protettori, alberi e praticello dove nascondersi per comprare o vendere poltiglia tailandese, rappresentava il luogo di quegli anni e, nella sua dimensione generale, composta da esseri umani e architetture urbanistiche, incarnava l’essenza di tutto il nostro disfacimento esteriore e spirituale. Intanto Iggy aveva le vene gonfie di eroina, mentre il capoccia della "Elektra" (la sua Etichetta musicale) avevano gonfie le palle di lui e dei suoi Stooges. Iggy stramazza sul palco, Dave Alexander a malapena riesce a ricordare di pigiare le corde del basso. Gli Stooges sono al collasso. Noi gli eravamo appresso.
Iggy Pop e gli Stooges
Abbracciati a
Medusa
Il viale era il sito cittadino dove avevamo scelto di abbandonarci e cercare un’esistenza diversa che non fosse altro che la nostra personale e collettiva solitudine. Non sapevamo nulla di questo processo di annientamento che avevamo intrapreso in tutte le sue modalità e aberrazioni possibili, non ne sapvamo nulla, ma noi eravamo i protagonisti. Per questo, a cavallo degli anni ‘70-’80, prese vita un consorzio umano a perdere in un viale anonimo a chiunque, chiuso a tutto il mondo, plumbeo, sommerso nello smog e nei reticolati di fili elettrici che ci passavano sopra alla testa per il filobus. Troppo ingabbiati. Esasperatamente reticolati nelle nostre funzioni, il tempo passava con la stessa cadenza che dava al nostro vivere ogni volta che la morte chiedeva il conto ad un amico o amica. Bene (per modo di dire), iniziamo la lista più triste della mia vita con Merdina (morto di Aids). Un tossico che dalla furia di evadere il destino di morire si era fatto abbracciare presto dai tentacoli di Medusa. Considerato da tutti noi una sorta di veterano, in quanto nella tanto favoleggiata Amsterdam, Merdina, era di casa e questo bastava ad accreditargli di diritto il nostro rispetto di poveri pischelli, che oltre a Ravenna, Bologna e la “generosa” Verona, non eravamo stati capaci di sconfinare. 
Lista amorevole
Rappresentava un totem, una sintesi perfetta dell’incomprensione totale col mondo pur vivendoci fin nei suoi spazi più famigerati e irrisolvibili. Eleonora (morta, non so come), aveva le braccia più massacrate che abbia mai visto. Un calvario di ‘piste’ punzecchiato da aghi sempre irti e spuntati per il troppo uso e consumo. Sandro, soprannominato Pinco (morto di Cirrosi) era carico di metadone. Daniele (morto di Aids) in balìa della feccia del pianeta a forza di prenderlo nel culo e in bocca per comprarsi la polvere degli angeli, era alla ricerca di un limone per prepararsi all’arrivo del ‘tipo’.
Slego (si è disintossicato e sta bene, uno dei pochi) era appena arrivato dall’ennesimo furto in una farmacia. Con sé aveva qualche fiala di Morfina e Codeina. Antonio (non so dove sia ora) strafatto e con la bocca semiaperta e gli occhi chiusi steso su una panchina in ferro. Erio (morto di Aids) con un rivolo di sangue che perdeva fisso dal callo che si era formato sul braccio destro. Manuela (morta di Aids) che boccheggiava qualche sorsata d’acqua alla fontana da dove con le siringhe attingevamo l’h2o per poter vivere l’ennesimo inganno. Radicchio (morto, non so di cosa, anche se non ci vuole la fantasia di Honoré de Balzac per immaginarlo) in completa astinenza a chiedere in giro per Faenza qualche spicciolo per raggiungere il medesimo scopo di tutti noi. Gabriele (morto di Aids) già bollito dal mattino, era alle prese con due ragazzotti alle prime armi, belli belli per fargli un pacco, cioè vendergli del muro grattato per eroina. 
Cita,      non
King       Kong
Il    Lupo (di cui ho perso traccia) parlava da solo o per meglio diree, discettava con la sua pazzia lisergica. Schizzato via nel mondo di Pippo a causa di una fatale e micidiale Micropunta berlinese, un acido potentissimo. Stefania (si è disintossicata e ora sta bene) appena reduce da una pera colossale con il volto incredulo a tutta quella gratificazione chimica. Roberto (morto di Cirrosi), immerso in una nuova epifania dell’orrore perché aveva racimolato, non so come, più di tre grammi di roba. Eugenio (ucciso da un tossico con più di dieci coltellate) arrivava con la sua Lambretta, pronto anche lui come tutti a comprarsi la quantità sufficiente per sbattere la scimmia quotidiana affinché rimanesse delle dimensioni di Cita e non prendesse quelle di King Kong. Barbara (morta non so di cosa, ma vale la stessa osservazione fatta per Radicchio poco sopra) bella come poche, spulciava nella borsa, tirando fuori da essa del materiale strano che non si addiceva ad una ragazza di diciassette anni.
Il messaggio finale di tutte queste parole, è questo!
La     timidezza
di     Pippi
Pippi (anche di lui ho perso traccia) aveva appena affogato la sua timidezza siderale (il tossico più timido e dolce del mondo) in un liquido dal colore marrone. Vanni (mentre scrivo mi dicono che è in stato terminale-Aids, ma adesso si è ripreso, ma gli hanno dovuto amputare una gamba) dal ciuffo biondo e libero, lanciato come una freccia in quella dimensione oppressiva e vuota di colore e forma. Spumino (di cui non so nulla) lo si vedeva arrivare in lontananza e ciondolare un po qua e un po la, sbattendo il muso contro numerosi lampioni. Jackie (morto di Aids) era in uno stato pietoso di astinenza: occhi come due orbite spaziali protesi verso l’esterno, un sudore da congela nonostante fosse estate piena, dita vibranti come le mani di un malato di Parkinson, pieghe che rendevano il volto uno straccio stropicciato e uno sguardo intriso di disperazione. La gente passava di lì, gettava qualche curiosa occhiata per scrutare cosa facessero quegli strani ragazzi.















La Mistura

Era l’inizio degli anni ottanta e i tossici d’allora, molto più appariscenti di quelli di oggi, stavano lì in quella gabbia di vetro senza confini alla mercé degli sguardi altrui. Denti marci, deliri pesanti, braccia tumefatte a forza di spingere con l’ago, calli color giallastro sulle vene per formare una sorta di fessura-flebo sempre aperta e pronta all’uso, stitichezze di settimane a causa del limone per sciogliere i caccoli di Brown Sugar, emicranie alla testa e febbri fino a 40 gradi a causa dei tagli che gli spacciatori usavano per aumentare le quantità. Un esempio di gioventù che non voleva essere quello che praticava, una generazione di sconfitti senza aver mai gareggiato. Sconfitti nei sentimenti e nella tenacia di architettare qualcosa di valido, capaci solo di alzarsi dal letto con il pensiero fisso di racimolare qualche decina di migliaia di lire per affondare ulteriormente nella fanghiglia dove ognuno di noi si ritrovava.
Volti macchiati
e rughe che disegnavano le nostre facce bizzarre e destini beffardi, quando non erano crudeli. Nella sua innocente rabbia, il Lando, (morto, si dice di Aids e temo che sia vero) era uno dei figli più rappresentativi di questa parte mondo oggi scomparso e deviato. Una sera ci sconvolse fino al panico a tutto tondo, al sottoscritto e William Cipolletti, quest’ultimo un mezzo gangster gentiluomo dalla chioma bionda e lunga, età avanzata, un certo giro di amici importanti legati al mondo dello spettacolo e tante cazzate varie, molte delle quali lo stesso Cipo pompava a dismisura, quando non erano inventate del tutto. Un vero e proprio smargiasso millantatore. Aveva una gran bella voce, cavernosa, profonda, che gli dava un tono di autorevolezza e che fosse pieno di donne era vero, gli va riconosciuto, nonostante il rodomonte trombone che era. Eravamo nel viale di Faenza, quando l’orologio del centro suonava le quattro del pomeriggio, tutti in attesa della stessa cosa.

Il tipo con la roba ci lascia a cuocere in una sfibrante attesa. Le attese più interminabili che abbia mai vissuto, che a confronto, stare sotto il sole per due ore e mezzo sull’autostrada in agosto con una sete da arsura e senza alcun liquido in cui affogarsi, era un’attesa da invidiare. Una fauna umana senza bussola. Una mandria di tossici sempre più mangiucchiati dagli innumerevoli down, secondo dopo secondo, istante dopo istante, singhiozzo dopo singhiozzo. Per questo molto pericolosi. Fisici secchi attraversati da brividi, ossa rotte e l’armamentario sempre pronto in qualche tasca di giacconi pesanti, perché i tossici, si sa, hanno sempre freddo.
E'      arrivato Marco!
L’armamentario era composto da spade quasi sempre usate e da più persone, un coccio di barattolo di Coca cola o un tubetto di Saridon dove poter sciogliere l’ennesima dose di calma piatta e partire per un viaggio di pace della durata di qualche ora per ripiombare in una dimensione che con la sfera dell’umano ha poco da spartire. C’erano anche gli sprovveduti, i più, a cui si doveva prestare tutto questo genere di cose. Roberta aveva appena finito di scopare con un muratore, una marchetta: “Ogni tanto ci vado - raccontava -. Lo conosco bene ed è gentile, anzi timido e so in quale cantiere lavora. Scopiamo sul posto. C’è da guadagnare parecchio lì” dice rivolgendosi a Paola con un volume di voce che l’avrebbe sentita chiunque fosse stato a pochi metri di distanza da lei. “Adesso poi - riprende - si sono aggiunti altri suoi due amici che hanno portato un materasso, così abbiamo anche un posto dove stenderci. Oggi me li sono scopati tutti e tre per cento mila lire”.

Un’insana
trepidazione 
Paola parlava con naturalezza di quanto combinava con i carpentieri, talvolta anche cinquantenni. Una volta l'incontrai nel viale col vestito tutto impolverato di polvere di cemento. Glielo dissi, si guardò e mi ringraziò per poi andarsene con Gemma senza pulirsi. Ma tutti i discorsi che stavamo facendo, improvvisamente saltarono e le occhiate cambiarono direzione all'istante, quando con l’arrivo del pusher scattò un’agitazione mista ad iper-agitazione in ebollizione generale. “Ecco, ecco... Marco! Vai, è arrivato... C’è Marco... c’è Marco, c’è Marco”. “Ma dov’è?”. “La in fondo, sta arrivando con Loretta”, “Dove? Dov’è?”. Un’insana trepidazione aveva acceso i motori delle nostre percezioni soggettive, come si faceva con i cerini di legno. Pareva fosse arrivato il messia e non penso sia errato riflettere che l’eroina, per la psiche deturpata di un tossicodipendente, abbia significati e valenze anche spirituali. Maurizio, recitava un'Ave Maria quando aspettava il pusher affinché non ci mettesse molto tempo. “Allora Marco, tutto a posto? Ce n’è per tutti?”. Marco fa un cenno con la testa invitandoci a seguirlo. Lui, su una vecchia Ami 8 bianca con la sua ragazza davanti a far strada a tutti noi.













Panico nelle vene
Una carovana di disperati in fila indiana, uno dietro l'altro, sulla via Emilia come in cielo, anche se diretti verso l'entro terra forlivese per trovare un posto tranquillo dove poter contrattare. In macchina con me e Cipolletti sale il Lando, senza neppure che ce ne rendessimo conto. E’ la fine e non lo sapevamo. Il Lando esordisce nel suo stile: “Cazzo, non c’ho una lira e sono in down. Che ne dite se gli porto via la roba a quello là? Ci state? Facciamo a metà dopo? Me lo mangio quello lì. E’ un pischello da ridere. Lo so... lo so!!! Lo conosco, sono stato in galera con lui e quando volevo mi faceva sempre il té. Ed era il suo”. Ammesso - e concesso - che quello di rubare la roba ai pusher di turno fosse uno degli sport più praticati nel pianeta dei tossicomani, bisogna far presente, tuttavia, che a quel punto avremmo dovuto non tanto temere solo lo spacciatore, bensì i tossici in branco e in braccio ad un esercito di scimmie in attesa di comprare da Marco il proprio desiderio di sollievo.
Fu allora, mentre Marco stava rovistando il suo sacchettino per dispensare grammi a destra e a sinistra che il Lando, strafatto di psicofarmaci e barbiturici e bevuto di Neuroni, tirò fuori un coltello mai visto. Una lama lunga quanto non si vedeva neppure nei film. Da una parte oltre 30 centimetri di lunghezza, la lama alta 3 dita, la punta smussata in modo da scannare anche uno Gnù africano e sul dorso aveva la classica dentatura da caccia agli squali nei Caraibi. Un “ferro” luccicante come la pazzia del suo tenutario. Il sudore fece ingresso nel nostro sangue.
Uno      schizzo
per      Lando
Io e Cipolletti, oltre che sentire i primi vagiti di una nuova astinenza, cercammo in tutti i modi di dissuadere il Lando dai suoi intenti dissociati, anche se sembrava che non ci sentisse neppure, tale era il livello di subbuglio mentale: “Adesso io scendo - riferisce il Lando biascicando ogni lettera che usciva a fatica da una bocca dalle labbra screpolate -. Voi mi aspettate là, verso quel casolare abbandonato, io gli punto il coltello sotto la gola e mi faccio dare tutta la roba che ha addosso. Corro forte quando mi ci metto, non mi prenderà nessuno”. “Ma cosa cazzo dici!!! Ti sei definitivamente alleggerito del cervello? Non vedi la gente che sta male e sta aspettando come noi? Li avresti tutti contro, diventerebbe un gioco al massacro! Un Apocalypse Now senza precedenti. Stanno tutti male e certuni più di te. Se gli porti via la roba poi ce li hai tutti contro. Lando, lascia stare, non fare cazzate e lascia perdere. Ti daremo uno schizzo della nostra".
Quando un tossico in preda all’astinenza e la testa persa in un ragionamento tutto suo decide di compiere un’azione, logica o illogica non fa differenza, fino a quando non l’ha portata a termine non c’è verso di dissuaderlo dai suoi malati intenti. Infatti il Lando non ne voleva sapere e mentre stava per aprire lo sportello per scendere e rapinare Marco, sempre William, non so con quale coraggio gli urlò in faccia: “Lando, una pera te l'offriamo, non so cosa potremmo fare di più e tu capisci quello che dico, anche se adesso sei cotto. Quello che ti voglio dire, Lando del cazzo, fai quel che vuoi però a noi lasciaci fuori dalle tue rapine, dalle tue storie, dalle tue seghe schizofreniche. Lasciaci perdere!!! Okay!!! Non coinvolgerci in queste storiaccia di merda! Io voglio vivere ancora un altro po’ se mi è permesso e se non ti dispiace”. Poi tirò il Lando dentro la macchina mentre brandiva il coltello. Seduto sul sedile posteriore, ero terrorizzato dalla paranoia che s'incazzasse con Cippo. Intanto il pushers vendeva roba come frutta, ignaro del pericolo che stava correndo.


"Metti via quella pistola!"

Con quel coltello impugnato, due occhi rossi come imbevuti nel cloroformio, una rabbia in corpo da far esplodere un’intera città, il Lando iniziò a piangere. Intervenni anch’io. “Ascolta un pò Lando. Adesso scendo io, compro un pezzo (1 grammo) e ci facciamo tutti e tre gli stessi c.c. d’insulina. Non sarà un perone, però basterà per calmarci un po’”. Fece cenno con la testa che ci stava, mentre piangeva con le lacrime di un bambino. Io e Cipolletti ci guardammo negli occhi come se una prima pera ce la fossimo già fatta. Il rischio che ci scappasse una coltellata o forse più era davvero reale, credetemi. Scesi dalla vettura lasciando Cipo in compagnia del Lando, davvero furioso, affinché controllasse ogni sua mossa.
 
“Ora metti via il ferro” gli dico mentre mi avvio verso Marco per far la spesa. Tornai dopo il trick e track, avvenuto in mezzo a un campo nascosto da una serie di alberi, che il Lando piangeva ancora. Niente di trascendentale, per carità. Però, ancora ad una notevole distanza di tempo (poco più di 33 anni circa) da quell’episodio e da quel pianto, io non so come interpretare quell’angoscia. Certo, sarebbe molto più facile e sbrigativo liquidarlo come un pianto dovuto ad uno stato confusionale, ad un miscuglio di sostanze portentoso, vicino allo shock anafilattico. In realtà credo che in quelle lacrime navigasse una bufera di vento che sommergeva anche il vaso di Pandora, pronto non ad aprirsi, ma a scoppiare, dilaniarsi e spargere tutti i tormenti di un giovane che aveva congelato la propria esistenza e l’aveva messa sotto formalina. Sul Lando l’imperfezione aveva vinto e lui pareva non facesse più resistenze.



















Chiunque    vale più di ogni suo     errore
Tornammo sul viale della cancellazione, tutti e tre cotti per qualche ora. Quel viale tornava ad essere, ciclicamente, il ritrovo di strani mostri. Un punto di confine tra l’ingloriosa umanità degli esseri umani e la nostra indifferenza verso tutto ciò che ci ruotava attorno. Gli sguardi, dopo la pera collettiva, erano ancora più ebeti e fissavano più intensamente il nulla, unico panorama per tutti. Ognuno, nel nulla, s'era ritrovato.
Aveva trovato conforto, aveva staccato la spina per un pò, il tempo di non pensare a niente per poi sprofondare nel vortice del gorgo. Era giunta la fase post-pera quotidiana, quando, chi più chi meno, aveva in circolo nel corpo una quantità di sostanze agognate fino a poco prima. Tutto ciò, avveniva intorno alle cinque del pomeriggio, ci si arrendeva su quelle panchine e si passava quattro o cinque ore in attesa di pischelli da bidonare o, più precisamente, fargli un pacco portandogli via quel pochissimo che avevano, anche dieci mila lire. Ricordo che una volta grattammo in due un pò di muro per 15mila lire, eravamo alla canna del gas. Si procedeva per inerzia, come se il vivere fosse un dovere o un automatismo e il nostro corpo rivelava la sua esistenza solo grazie all’ombra che lo seguiva in silenzio. Nella sua abissale solitudine non si accorge del nulla che lo accerchia, lo attanaglia e frantuma ogni sua opera, non solo propria, ma anche quelle dell’uomo nella storia. Nulla ha più senso, ne dentro di me, ne fuori. E oggi non ho più parole.