Notti notturne

giovedì 1 marzo 2012

Irsuto genio peloso

Lucio Dalla, disegnato da Manara
"Conosco un posto nel mio cuore, dove tira sempre il vento, per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento, non c'è niente da capire basta sedersi ad ascoltare" (Cara 1980)
Di "Futura", un critico musicale scrisse che era la canzone del secolo. Certo, era un giornalista spinto dall'onda dell'entusiasmo, anche se poi, una volta ascoltata, gli si perdona tutto a chi enfatizzò, con eccesso di zelo, quel brano.
Caro Lucio ti scrivo

Matteo Tassinari



E' morto Lucio? Cosa? Impossibile! Uno scherzo sul web di qualche frescone, abbiamo pensato, ormai assuefatti alla banalizzazione d’un evento come quello della morte, divenuto anch’esso liquido, evanescente, irreale, post-moderno? Si, appena sentita la notizia della scomparsa dell'artista, non so perché, ma in molti l'abbiamo presa come fosse una barzelletta. “È la vita che finisce, ma lui non ci pensò poi tanto”, cantava Lucio in quello che è considerato il suo capolavoro assoluto: "Caruso".

La tragedia contemporanea consiste appunto in questo: nel non pensarci poi tanto. La morte giunge, radicale e grave, incredibilmente volatile e sempre troppo presto. Prende e rapisce e lavora l’inafferrabile nel mistero che tutti noi sappiamo. Lucio era anche cristiano. E da tale, per lui, non era la morte a giungere, ma la vita a finire e (ragionando sul filo della lama del rasoio), come il suo "Caruso", non ci pensava mica poi tanto perché molto aveva amato. La vita finisce anche così, per tutti, o per alcuni, anche per quelli con molti peli sulle spalle e fanno di tutto per sembrare uno scimmione scappato dal qualche circo in città.




















Geniaccio      irsuto
Più poveri, tutti quanti, appena ci è giunta la notizia della morte di Lucio Dalla. Morte vicina a quel "miracolo" di canzone "4 marzo" che tramutò in note per timbrare un'intera generazione alla ricerca di qualcosa di diverso da Claudio Villa. È solo il primo 4 marzo che passiamo senza di lui, e siccome non ci pieghiamo alla retorica buonista della morte, pur sapendo che non sarà neanche l'ultimo, allora un dettaglio di post va utilizzato per quello che invece ci lascia in parole e musica Lucio Dalla. Una volta, al Palazzetto di Forlì nel 1991, l'intervistai al volo.

Il tempo che Samuele Bersani, che ancora nessuno conosceva, suonasse una canzone nel concerto del jazzista bolognese, suo scopritore musicale. Mi disse ai piedi del palcoscenico quindi in un frastuono pazzesco: "Vai spara, cosa vuoi sapere?" e di li nacque un'intervista che allungai come quando devi tirare il collo alle galline per fare il brodo dove bollire i cappelletti. Un'intervista molto fantasiosa, anche perché il pezzo dell'ancora sconosciuto Samuele Bersani durò appena 5 minuti. Ricordo solo che le domande le dovevo urlare e lui le risposte quasi me le sputava in faccia. Da lì a pochi secondi sarebbe poi dovuto tornare sul palco a prendere le redini e guidare un palazzetto colmo con la sua arte e il suo bidibibodibidù!


Battito sincopato

Abbiamo eluso una verità così semplice? Colpa nostra. Quest'uomo di piccola statura, aveva un cuore grande come le canzoni, quelle dolci e imbarazzate, che scriveva. Quella solitudine mai confessata a pieno, un piccolo grande uomo che se n'è andato con discrezione. Ma troppo presto. C'è un aspetto della propria vecchiaia cui di solito non penso, che è sottile ma forse il più brutto: vedere le persone intorno a te che, quelle a cui vuoi bene, morire. Una voce capace di espansioni sublimi e profondità barittonali, grappoli di note in una riga di spartito, talvolta facendo impazzire gli orchestrali stessi con arrangiamenti racchiusi nel battere sincopatico e jazzistico di Dalla il jam session-man. Lo dico senza timore di retorica alcuna. Da quanti secoli manca un soggetto come lui? Lucio Dalla era un meticcio marino. Non si capiva bene da quale parte iniziasse, o finisse, il suo corpo basso e stortignaccolo lo rendevano immediatamente simpatico. Un mozzo villoso? Una Querelle italiana, alla Rainer Fassbinder? Un artista che anche i lati più spigolosi dell'esistenza, li rendeva meno appuntiti, come i ricordi di "Anna e Marco", una tragedia in chiave minimalista di un amore adolescenziale che non troverà mai pari dignità ai loro sogni.














Lampi di ferrigna ironia
Tutto questo, e molto di più. Guccini, suo amico dalla fine anni '50 suonatori della band dell'Osteria da Vito di Bologna, anni mitici sul serio, diceva: "Ogni tanto ci sono canzoni di colleghi che fanno dire: porca vacca, questa avrei voluta scriverla io. A me capita con "Com'è profondo il mare". Un periferico che come nessuno aveva saputo scrutare Milano. Quella degli anni ’70, truce e concitata, di Corso Buenos Ayres. Odiava quella frenesia da calibro 9, il bolognese Lucio e lo urlava, lo digrignava anzi, sempre con un lampo di ferrigna ironia, ma sapeva anche accarezzare così bene, e delicatamente, la città nuda e tentacolare. “Milano lontana dal cielo, tra la vita e la morte continua il tuo mistero”.
L'inquietudine di una lettera che rompe gli argini della ragione e della lontananza perché la vita bussa all'uscio del proprio presente e passato e del suo mistero impetuoso per noi umani. Lo sopportiamo perché non possiamo sfuggirli. Il fatto che sia una regola per tutti lo rende meno atroce di quel che è, Lucio, dalla sua, aveva l'ironia e l'originalità a salvarlo, più che il destino è stata la sua voglia e la sua strana metrica poetica a renderlo singolare al punto che altri artisti a lui simili è faticoso trovarli. Anzi, non ci sono proprio.

Altro mare profondo
Era la sua traversata biblica, oceanica, di una sensibilità ampia e di un tormento profondo, come quello delle zanzare o mosche che a suo padre gli chiedeva di cacciare via perché lui, Lucio, davano fastidio. Con qualche accento disperato, degno d’un moderno Giobbe, un pre-raffaellita a divenire: “Frattanto un mistico, forse un aviatore, inventò la commozione, che mise d’accordo tutti, i belli con i brutti, con qualche danno per i brutti che si videro consegnare un pezzo di specchio così da potersi guardare”. La religione ci ha lasciati più inguaiati di prima, quando si è istituzionalizzata. E chi ne ha fatto le spese è sempre stato colui che più povero era e tale è rimasto. Lo stesso concetto nell’altro suo eroe marino, Ulisse: “Ho immaginato la protesta d’un marinaio: senta signor Ulisse, lei parte, va, conquista mondi, seduce le donne più belle, e quando si trova nei guai, tracchete! Ecco un dio che la salva".














"Ci fosse un altro mondo, sarei pronto"
"I suoi sbagli, però, siamo noi a pagarli, noi non protetti da nessuna divinità, noi che abbiamo solo una casa e una moglie e un misero stipendio”. Con queste parole, una volta, Dalla spiegò la genesi di Itaca, con quel magnifico coro “fuori sincro” maschile e pure femminile. Coro di mondine e di operaie, perché Itaca era la metafora, anche, della violenza del potere sulla classe oppressa. Forse, persino del capitalista illuminato. Come nell’”orazion picciola” dell’Ulisse dantesco, dove alla fine anche il marinaio di Lucio resta sedotto dal fascino ambiguo dell’eloquio itacense: “Anche la paura in fondo, mi dà sempre un gusto strano: se ci fosse ancora un nuovo mondo, sarei pronto, partiamo?”. Domandò Lucio.
Ma l'impresa eccezionale dammi retta, è essere normale

Varie tonalità di blu, dal celeste all’oltremare, sempre amato. Mare profondo, pesci che non si fanno afferrare. Una sola, bianca, sotto un sole greco, e quel prigioniero che sogna la donna, lo vedo relegato in uno stambugio levantino, anch’esso chiaro, ma d’un silenzio di calce, spoglio, vano. Che aspetta, aspetta, con un sorriso sciocco, balengo. Morto il prigioniero con un’allegria (Quale allegria?) azzurra d’illusione, ma forse ambiguamente rappacificato, accarezzato da un’ala di misericordia. Nel '66 fa da spalla a Jimi Hendrix nel concerto al Piper di Milano.
È il periodo della beat generation, della ribellione giovanile, del rifiuto degli schemi. Ma Lucio Dalla è più un solitario agitatore, un indipendente alternativo. Così l'abbandono dei toni più duri corrisponde proprio con il grande boom del cantante che approda alle grandi cifre di vendita con 4 marzo 1943, cui seguono canzoni come Piazza Grande, Il gigante e la bambina, Itaca. Dal '74 al '77 opera un altro cambiamento di rotta. Inaugura un tipo di spettacolo a metà strada tra il concerto vero e proprio e il teatro militante, ed avvia una proficua collaborazione artistica con il poeta bolognese Roberto Roversi orientando la sua produzione verso contenuti civili.
Il re degli estrosi pelosi
Cantava parlando

La voce di Lucio Dalla, è anch’essa leggera mentre lo racconta, quasi buttata lì, fischiettata in semitono, quasi che la sua voce parlante fosse anche quella musica da suonare a seconda di quello che fosse il significato di quel che andava cianciando. In pratica, ti parlava cantando. E senza scalpore, senza preavvisi, senza aver il tempo di capire quel che ti stava accadendo, senza capire il significato della morte. Salutarti così, trafelati, in fretta, tra una cena e un Tg, un boccone di patate e l'arrivo di un sms, non è stato semplice neanche per noi. Non c'era lo stile di "Attenti al lupo!". Ci hai solo preceduti, dolce irsuto genio. 
"Ma sì, è la vita che finisce, ma lui non ci pensò poi tanto, anzi si sentiva felice e ricominciò il suo canto"
(Lucio Dalla, Caruso)
L'ormai celebre e surreale video-clip di "Attenti al lupo" insieme alle coriste
Iskra Menarini e Carolina Balbonicon la quale vi auguro buona vita

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*Ecco il mistero, sotto un cielo di ferro e di gesso, l’uomo riesce ad amare lo stesso e ama davvero nessuna certezza che commozione, che tenerezza*