Notti notturne

lunedì 17 marzo 2014

Train De Vie, et de la poésie

Treno carico
di vita e    poesia
di Matteo Tassinari
La traduzione italiana di Un treno per la vita è senz'altro coerente alla vicenda narrata da Radu Mihailenau. Il treno del film, infatti, è davvero un mezzo capace di salvare la vita grazie ai suoi vagoni, come una nuova arca di Noè. Gli ebrei del piccolo shtetl (definizione utilizzata in Europa per gli insediamenti con elevata percentuale di popolazione di religione ebraica), trovano riparo dal diluvio nazista che in quel medesimo scorcio di tempo sta sommergendo l'Europa e il mondo intero con ferocia mai vista. Anzi: l'affermazione della vita risulta essere tanto più trionfante proprio perché ad un treno è affidata la salvezza di quella comunità ebraica, vale a dire ad un mezzo che i nazisti impiegavano, invece, “per la morte”, per la deportazione nei campi di sterminio.
"Dopo Auschwitz non è
più possibile scrivere       poesie"
(Theodor Ludwig Wiesengrund-Adorno)
La capacità di trasformare il patibolo in una opportunità di salvezza non solo dice la regalità sabbatica del popolo ebraico e la sua capacità di resistenza al male (paradigmatica è la bellissima sequenza in cui il rabbino mette in salvo i rotoli della Legge), ma smentisce pure la sentenza di Adorno, secondo cui, dopo Auschwitz, non sarebbe stato più possibile scrivere poesie. L'unica attenuante per Adorno è quella di non aver visto Trein de vie. La sua poesia nasce dal coraggio, da parte del regista Radu Mihăileanu (la cui famiglia fu internata in un lager) di fare seriamente i conti con il divieto adorniano e di assumere, giusto nella poesia, il peso di quel tempo abnorme e smisuratamente aberrante. I personaggi del film sono tutti intrisi di poesia, dal rabbino al macchinista, dal sarto al ciabattino, dal contabile a Mordechaj, il mercante di legnami incaricato di condurre gli abitanti dello schtetl.
Ora bevono       fuoco per porre il dono celeste
Ma il più poetico di tutti è Shlomo. Il matto, l’idiota del villaggio, senza il quale, però, quel villaggio e il mondo stesso non sarebbero più. È lui che racconta la storia, è lui che imbastisce le trame, come si capisce nell'ultima, folgorante inquadratura, ed è lui l’unico a piangere in tutto il film quando confessa alla ragazza, la quale gli domanda se non abbia mai desiderato una donna, che proprio lei è quella donna. In realtà sono le lacrime di un popolo, non sono solo le lacrime di un ragazzo. Le gocce salate che fuoriescono dagli occhi parlano di una patria lontana, di una meta che da sempre lo attende e che pure, sempre, gli è negata, un desiderio di normalità che resterà irredento. Dicono, quelle lacrime, quanto sia terribile essere un poeta, perché questi hanno il compito di visitare gli spazi frammezzi dove gli dèi comunicano solo per cenni e di offrire ai mortali la luce divina, dopo averne provato le ustioni sulla propria carne, come il satiro Marsia.

E' triste
la notte di    Shlomo
A Shlomo si   addicono questi stupendi versi di Holderlin: “E per questo bevono ora fuoco celeste, i figli della Terra senza pericolo. Ma a noi spetta, sotto le folgori del Dio, restare a capo scoperto, il fulmine del padre, anch’esso, afferrare con le mani e avvolto nel canto porgere il dono celeste”. Ecco, compito del poeta è di mostrare quanto sia “triste”, ma anche “sacra” la notte.
E triste è la notte che Shlomo, nella sequenza con cui si apre il film, annuncia alla sua comunità le tenebre che ha scorto al di là dei monti, in uno schtetl vicino, sono a tal segno fitte che non pos­sono essere riferite a parole, ma solo attraverso gesti concitati e scomposti.
 I singhiozzi del profeta
Ecco che allora gesti, azioni, parole apparentemente inspiegabili, assumono valenze così importanti che pesano ancora e penso per sempre sulla coscienza del mondo e di chi decide come devono gli altri, l’abominio delle bestie. La corsa forsennata di Shlomo per il bosco, è l’annuncio dell'indi­cibile e dell'inaudito. E’ rivelazione di una ferita che mai più si rimar­ginerà perché ogni limite è stato superato. Pare di sentire i singhiozzi del profeta Geremia: “Per la ferita della figlia del mio popolo, l’or­rore mi ha preso”.
     Dopo la    notte 
sacra e ogni volta sempre più corta, il giorno coi suoi orrori alto si alza. Eppure il poeta sa anche che la notte è “sacra”, perché dopo di essa giungerà il giorno. Ciò che resta, ben poco ma protetto e solenne, è dono dei poeti se vi è una salvezza dal nulla e mai l'umanità è stata sul punto di perdere se stessa come durante la Seconda guerra mondiale, quando la Germania Nazista di Hitler sembrava che stesse per avere la meglio nel mondo.
Sublime follia
è la capacità di ridere del proprio dolore e soprattutto della violenza di cui si è fatti bersaglio, perché solo attraverso il riso si può esorcizzare la possibilità di diventare, a propria volta, oppres­sori. Per sottrarsi alle spire del male, infatti, non di rado si assume un atteggiamento mimetico nei confronti dei persecutori. E’ ciò che ac­cade nel film agli ebrei travestiti da nazisti, che alla lunga finiscono per prendere troppo sul serio la loro parte. Contro questa tentazione il miglior vaccino è, appunto, l'umorismo, come comprende bene Schmecht, l’insegnante ebreo di tedesco, quando suggerisce a Mor­dechaj che, per ripulire il tedesco dalle inflessioni yiddish, basta eli­minare qualsiasi traccia di umorismo, perché “lo yiddish è una paro­dia del tedesco con dentro l’umorismo”.
Dio         scelse Mosè
 il     balbuziente 
L'umorismo ebraico, è la consapevolezza della relatività di ogni cosa umana dinanzi all'Assoluto, e, dunque, è la demistificazione di qual­siasi idolo, anche quello del comando. In Train de vie umoristico è il solo fatto che lo stratagemma del treno sia stato escogitato dal “matto del villaggio”. Tuttavia, se ci si riflette bene, il film ripropone ciò che avviene nella Bibbia, quando Dio sceglie il balbuziente Mosè quale guida per il suo popolo, o quando elegge lo zoppo Giacobbe campione eponimo del popolo di Israele. “Solo io sono scampato per raccontartelo”.
Le parole del messo,
che annunciano a Giobbe la morte dei suoi figli, sembrano vibrare anche nella voce di Shlomo nella raggelante inquadratura che suggella il film. Questi, con la divisa a righe, numerato, si trova dietro a un filo spinato. tuttavia c'è quel senso di vivacità di fronte alle disgrazie. quell'autoironia che filtra e riflette il mondo intero, quella litigiosità vigorosa che aiuta a procedere il cammino umano, quell'incredibile eterogeneità di vedute sulla vita. Certo, è una comicità in cui s'annida sempre la tragedia dell'Olocausto e che non spinge a chiudere gli occhi davanti agli orrori dei tedeschi, il popolo più pazzo se colpito da un'"aneurisma" isterico nazionale. Una comicità che tuttavia trascina lo spettatore al ritmo delle musiche ebraico-gitane di Goran Bregovic, in un'allegria feroce, non buonista, capace di sovvertire anche un elemento così macabro ed indicibile come l'Olocausto. Che ne è dei suoi compagni di viaggio?
Il     treno     immaginario
passò di qui, fu poesia 
Anche  per essi la stazione d'arrivo è stata il Lager? Tutto il racconto deve essere inteso, allora, come un'opera di fantasia di Shlomo? Se si prende per buona questa lettura, il titolo del film acquista nuovi, sorprendenti significati. Attraverso la forza della narrazione, il treno immaginario su cui sono saliti Shlomo e gli altri ebrei diviene paradigma compiuto della capacità letteraria di salvare dall'oblio le piccole storie di cui è trapunta la quotidianità, e di illuminare il rapporto che intercorre tra queste e il tumultuoso Spirito del tempo.
Solo la letteratura,
i ricordi, canzoni, poesie, scritti, trasformano in carne e sangue ciò che per la storia non è altro che una successione di eventi e di date. Se abbiamo un'idea di cosa sia stata la Shoah, è proprio grazie a uomini come Shlomo e Mihailenau, che hanno avuto il coraggio e la forza d’imbarcare su un treno immaginario gli amori e le gelosie, i sogni e le speranze, le piccole gioie e le grandi pene della vita di ognuno. E allora, che male c'è a sorridere apertamente delle avventure strampalate di Mordekai, finto generale nazista e amico degli ebrei scampati alla morte, fuggendo su di un treno improvvisato, auto deportandosi verso la Terra Santa e la Salvezza.